LA MALATTIA DELLA TERRA SI CHIAMA CAPITALISMO. IL DISCORSO DI EVO MORALES ALLE NAZIONI UNITE

È stato un appassionato intervento a favore dei diritti della Madre Terra, la Pachamama, il discorso pronunciato dal presidente boliviano Evo Morales alla 62.ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, apertasi il 24 settembre al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York. La Terra ha la febbre, ha ricordato il presidente aymara, e la malattia di cui soffre si chiama capitalismo. Pretendere di curarla con le stesse ricette a base di crescita illimitata e di «consumismo irrazionale e diseguale» significa, pertanto, solo aggravare il male. Meglio invitare al suo capezzale i popoli indigeni, e «gli abitanti umili e onesti di questo pianeta», chiamandoli ad assumere l’avanguardia della difesa della natura e della vita. Le loro medicine avranno per alcuni un sapore amaro, ma saranno efficaci: una riduzione tra il 60 e l’80% delle emissioni di anidride carbonica da parte dei Paesi del Nord, la ristrutturazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e la creazione di un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente, l’adozione di un indicatore che combini l’Indice di sviluppo umano con l’Impronta ecologica, l’introduzione di alte imposte sulla «superconcentrazione di ricchezza». Netta anche la condanna degli agrocarburanti, significativo esempio di quelle ricette «basate su mercato e privatizzazioni» buone solo ad arricchire chi è già ricco.

Evidente il contrasto con quanto sostenuto al Palazzo di Vetro dal presidente brasiliano Lula, il quale ha, sì, posto l’accento sulla necessità di ripensare l’attuale modello di sviluppo per non accrescere i rischi di «una catastrofe ambientale ed umana senza precedenti», ma ha anche indicato negli agrocarburanti – sulle cui conseguenze in termini di aumento del prezzo degli alimenti, sfruttamento del lavoro e deterioramento ambientale insiste con forza il movimento popolare brasiliano – «un’alternativa di energia pulita» e una possibilità per «creare posti di lavoro e reddito» e «favorire l’agricoltura familiare».

Ma, a proposito di «ricette basate su mercato e privatizzazioni», la lista fornita al riguardo dal governo Lula è piuttosto lunga: se non bastasse l’etanolo, si potrebbero ricordare le autorizzazioni relative ai transgenici, i progetti faraonici sul tipo della deviazione delle acque del fiume São Francisco, la ripresa del programma nucleare e, ultima in ordine di tempo, la concessione ai privati di una parte della Foresta Amazzonica, nella convinzione che lo sfruttamento sostenibile di legname e di altri prodotti (frutti, sementi, resine, ecc.) da parte delle imprese sarà di ostacolo alla deforestazione illegale. La prima area a passare in mani private abbraccia 90mila ettari della Foresta Nazionale (Flona) nella Riserva di Jamari, in Rondonia, la cui estensione totale è di 220mila ettari. La gara d’appalto sarà aperta a imprese brasiliane (indipendentemente dall’origine del capitale) sulla base di determinati criteri, che non saranno solo economici ma anche tecnici, in termini di creazione di posti di lavoro, impatto ambientale ed efficienza tecnologica. Le tre imprese vincitrici potranno sfruttare, sotto una serie di condizioni (tra cui il rimboschimento delle aree devastate dal fuoco), e per un periodo da 5 a 40 anni, tre lotti rispettivamente di 45mila, 30mila e 15mila ettari. La decisione di affidare ai privati la responsabilità di preservare l’Amazzonia – pur se sotto la supervisione del Servizio Forestale Brasiliano, un organismo creato esattamente a tale scopo – non convince affatto gli ambientalisti, i quali pongono l’accento sul rischio che le concessioni si trasformino ben presto in proprietà privata e che l’iniziativa, permettendo l’abbattimento di un determinato numero di alberi, non faccia in realtà che aumentare la deforestazione (per non parlare della concorrenza rappresentata dal legname estratto illegalmente, e quindi molto meno caro, e dei dubbi relativi alla capacità del governo di investire sul progetto adeguate risorse economiche). «È la più grande tristezza della mia vita», ha commentato il geografo Aziz Ab’Saber, convinto che l’iniziativa innescherà «una distruzione progressiva dell’Amazzonia». «Ma il motivo di indignazione più forte – ha aggiunto – è che, all’interno del Ministero dell’Ambiente, nessuno sa niente di sfruttamento autosostenibile delle foreste tropicali».

Di seguito l’intervento di Evo Morales alle Nazioni Unite.


RICETTE PER LA SALVEZZA DEL PIANETA

di Evo Morales

evo moralesFratelli e sorelle, presidenti e capi di Stato delle Nazioni Unite: il mondo ha una febbre da cambiamento climatico e la malattia si chiama modello di sviluppo capitalista.

Mentre per 10.000 anni la variazione del diossido di carbonio (o anidride carbonica) nel pianeta è stata all’incirca del 10%, nei 200 anni di sviluppo industriale l’incremento delle emissioni di anidride carbonica è stato del 30%. Dal 1860, il contributo di Europa e Nordamerica è stato del 70%. Il 2005 è stato il più caldo degli ultimi mille anni del pianeta.

Vari studi dimostrano che, su 40.170 specie viventi, 16.119 sono a rischio di estinzione. Un uccello su otto può scomparire per sempre. Un mammifero su quattro è minacciato. Un anfibio su tre può smettere di esistere. Otto crostacei su dieci e tre insetti su quattro rischiano di estinguersi. Viviamo la sesta crisi di estinzione di specie viventi nella storia del pianeta Terra e, in questa occasione, il tasso di estinzione è 100 volte più accelerato che in altri tempi geologici.

Di fronte a questo futuro oscuro, gli interessi transnazionali propongono di continuare come prima e riverniciare la macchina di verde, cioè di andare avanti con la crescita e il consumo irrazionali e disuguali generando profitti sempre maggiori, senza rendersi conto che attualmente stiamo consumando in un anno quello che il pianeta produce in un anno e tre mesi. Di fronte a questa realtà, la soluzione non può venire da un maquillage ambientale.

Per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico, leggo in un rapporto della Banca Mondiale che bisogna eliminare i sussidi agli idrocarburi, dare un prezzo all’acqua e promuovere gli investimenti privati nei settori dell’energia pulita. Di nuovo si vogliono applicare le ricette basate su mercato e privatizzazioni per fare affari con la stessa malattia che queste politiche producono. Lo stesso succede nel caso dei biocarburanti, dal momento che per produrre un litro di etanolo servono 12 litri di acqua. E che, allo stesso modo, per produrre una tonnellata di agrocarburanti serve, in media, un ettaro di terra.

Di fronte a questa situazione, noi popoli indigeni e abitanti umili ed onesti di questo pianeta crediamo che sia giunta l’ora di dire basta, per incontrarci di nuovo con le nostre radici, con il rispetto della madre terra, con la Pachamama, come la chiamiamo nelle Ande. Oggi, i popoli indigeni dell’Ame-ica Latina e del mondo sono chiamati dalla storia a diventare l’avanguardia della difesa della natura e della vita.

Sono convinto che la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, approvata recentemente dopo tanti anni di lotta, debba passare dalla carta alla realtà affinché le nostre conoscenze e la nostra partecipazione ci aiutino a costruire un nuovo futuro di speranza per tutti. Chi se non i popoli indigeni può indicare il cammino dell’umanità per la preservazione della natura, delle risorse naturali e dei territori che essi abitano dalle origini del mondo?

Abbiamo bisogno di una profonda virata a livello mondiale per non essere più i condannati della terra. I Paesi del Nord devono ridurre le emissioni di anidride carbonica fra il 60 e l’80% se si vuole evitare che la temperatura della terra cresca più di due gradi in questo secolo facendo sì che il riscaldamento globale raggiunga proporzioni catastrofiche per la vita e la natura.

Dobbiamo creare un’Organizzazione Mondiale dell’Am-biente con mandato vincolante, e disciplinare l’Organizzazio-ne Mondiale del Commercio, che ci sta sprofondando nella barbarie. Non possiamo continuare a parlare di crescita del Prodotto interno lordo senza prendere in considerazione la distruzione e lo sperpero di risorse naturali. Dobbiamo adottare un indicatore che permetta di stimare, in maniera combinata, l’Indice di Sviluppo Umano e l’Impronta ecologica per misurare la nostra situazione ambientale.

Si dovrebbero applicare forti tasse alla superconcentrazione della ricchezza e adottare meccanismi effettivi per una sua equa redistribuzione. Non è possibile che tre famiglie abbiano redditi superiori al Prodotto interno lordo dei 48 Paesi più poveri messi insieme. Non possiamo parlare di equità e di giustizia sociale finché perduri questa situazione.

Gli Stati Uniti e l’Europa consumano mediamente 8,4 volte di più della media mondiale. Per questo, è necessario che riducano i loro livelli di consumo e riconoscano che siamo tutti ospiti di questa terra, della stessa Pachamama.

Non è facile il cambiamento quando un settore estremamente potente deve rinunciare ai suoi straordinari profitti, affinché sopravviva il pianeta Terra. Nel mio stesso Paese soffro, a testa alta, questo sabotaggio permanente, perché stiamo mettendo un argine ai privilegi di modo che tutti possiamo “ben vivere”, non vivere meglio dei nostri simili. So che il cambiamento nel mondo è molto più difficile che nel mio Paese, ma ho assoluta fiducia nell’essere umano, nella sua capacità di ragionare, di imparare dai suoi errori, di recuperare le sue radici e di cambiare se stesso per forgiare un mondo giusto, diverso, inclusivo, equilibrato e armonico con la natura.

Fonte: Adista del 13.10.07