Giornata Nazionale di Studi «Spezzare la catena del male»: dall’incontro tra vittime di reati e famigliari di persone detenute la richiesta di pene più umane e rispettose dei diritti. Venerdì 21 maggio 2010, dalle ore 9.30 alle 16.30 presso la Casa di Reclusione di Padova.
Quando si parla di vittime dei reati si pensa subito a chi il reato l’ha subito direttamente, o ai suoi famigliari, non si pensa quasi mai alle famiglie dei detenuti. Eppure, spessissimo il reato si abbatte con violenza anche sulle mogli, le compagne, i figli, i genitori di chi il reato l’ha commesso, e distrugge le loro vite: ci sono persone che hanno dovuto cambiare cognome per non essere additate come «i parenti di…», mogli che si sono trovate di punto in bianco con il marito in galera, e quindi senza più la fonte prima di sostentamento della famiglia, genitori anziani costretti per la prima volta, magari dopo una vita di assoluta onestà, a varcare le porte di un carcere.
Ma sono i figli le prime vittime, quei figli che faticano a perdonare ai loro genitori di averli abbandonati, perché di fatto la carcerazione di un padre o di una madre per loro è anche un abbandono. Quei figli che sanno essere giudici spietati, e il cui giudizio comunque nessun detenuto e nessuna detenuta si azzarderà mai a mettere in discussione.
Stabilire un contatto tra famigliari di detenuti con le loro sofferenze e persone che hanno subito un reato, invitarli a un incontro e a un confronto potrebbe portare a un passo avanti importante in un percorso per “spezzare la catena del male”, ma anche per rompere l’isolamento del carcere e ristabilire il filo sottile di un contatto tra il carcere e il mondo esterno. Se i famigliari delle vittime dicessero che non si sentono “risarciti” dalla sofferenza dei famigliari degli autori di reato, se fossero proprio loro a dire quanto è ingannevole sentirsi tutti delle potenziali vittime, come tanti mezzi di informazione ci spingono a fare, e non provare invece mai a vedere la realtà “con gli occhi del nemico”, non per giustificare, ma per capire, forse il clima di odio, di risentimento, di fastidio sociale per “l’altro da noi” si raffredderebbe, e forse si comincerebbe finalmente a pensare che dall’odio non può nascere niente di buono.
«Io non voglio parlare di perdono, però mi interessa tutto quello che può spezzare la catena del male, ma non un Male archetipico con la emme maiuscola, bensì il male che c’è dentro a tutti noi e che circola nella vita quotidiana»: sono parole di Benedetta Tobagi, a cui un commando di terroristi ha ucciso il padre. Ed è importante che le vittime come lei accettino di mettere la loro sofferenza a disposizione di tutti per «spezzare la catena del male», e di incontrare le famiglie dei detenuti per chiedere insieme pene diverse, che abbiano un senso, che non schiaccino le persone che le devono scontare, che permettano loro di salvare gli affetti e la dignità.
Ma il senso di una giornata di studi che faccia incontrare vittime e famiglie di detenuti è tutto dentro la testimonianza di Silvia Giralucci:
«Mio padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse quando avevo appena compiuto tre anni e non ne ho nessun ricordo diretto. La sua morte, a 29 anni, è stata una tale devastazione nella famiglia, che mia madre, per trovare in qualche modo la forza di andare avanti, ha scelto di chiudere dentro di sé il suo dolore, e di non parlare più di lui. Avevo otto anni quando mi ha spiegato, nella maniera in cui si può spiegarlo ad un bambino, che papà era stato ucciso per le sue idee. Ma ci sono voluti ancora anni, tanti, per accettare la sua morte, e anche oggi, dentro di me rimane sempre un senso di attesa, un desiderio fortissimo di vederlo in qualche modo tornare.
Poi qualche anno fa è successo che il laboratorio di teatro carcere del “Tam Teatromusica” ha organizzato una serata al teatro delle Maddalene. I detenuti, con uno speciale permesso premio, presentarono il loro spettacolo ai padovani. Come giornalista, assistevo alle prove, quando mi accorsi che nel cortile antistante il teatro uno dei detenuti attori perdeva tempo a giocare tra i bambini. Lo trovai strano, e chiesi informazioni. Rimasi di sasso quando mi spiegarono che quei bambini avevano per la prima volta la possibilità di vedere il loro papà fuori dal carcere e di giocare assieme a lui. Mi sono resa conto allora che la nostra società, la società dei giusti, stava infliggendo a quei ragazzini la stessa pena che era stata inflitta a me, e che anche loro, assolutamente innocenti, avrebbero portato i segni di quell a privazione per il resto della loro vita. Quella prospettiva ribaltata non mi ha più abbandonato. Questa esperienza è stata fondante in quello che ho cercato di essere e di fare. Anche nel lavoro, cerco sempre di scavare le ragioni profonde, e di comprendere anche le motivazioni di chi sento diverso da me».