Pomeriggio del 25 dicembre, Marsiglia. Nelle case si sparecchiano le tavole del banchetto festivo. Si accendono nelle strade, contro un cielo umido di pioggia, le lampadine degli abeti natalizi. Nel porto una flotta degli Stati Uniti attende l’ordine di salpare per la guerra contro l’Iraq. In un piccolo appartamento muore, a 88 anni, Paul Gauthier, profeta della Chiesa dei poveri, evangelista della pace che nasce dalla giustizia resa agli oppressi, sognatore di una Palestina libera e laica in cui due popoli sapessero vivere da fratelli. Pomeriggio di Natale, Betlemme. I carri armati israeliani sferragliano per le strade della periferia. Vuota di pellegrini la chiesa della Nativita’. In lontananza si accendono le lampadine nelle case di Beith Sahur, il villaggio dei pastori del vangelo di Luca, e della piccola “Citta’ della Stella”: le case popolari costruite anche da Paul, con le sue mani di carpentiere. Poco dopo il tramonto, i soldati sparano contro un’ombra di “probabile terrorista”. Uccidono una bambina di nove anni. Continuo a pensare che quel vecchio e quella bambina siano entrati nell’Aldila’ tenendosi per mano. Forse mi capita di pensare cosi’ perche’ fu un gruppo di bambini palestinesi che mi guido’, quasi esattamente 39 anni fa, alla baracca di Nazareth in cui abitava Paul, sacerdote che voleva vivere come il Cristo. E fu poi una piccola amica di Paul che diede il nome, senza saperlo, all’associazione che nacque dal mio incontro con lui. Le tante e i tanti che hanno letto i bei libri di Carla Grandi e di Ercole Ongaro (1) o l’autobiografia di Paul (2) conoscono questa storia, ma come posso, in queste ore, non ripeterla, almeno a me stesso? La mia vita cambio’ dopo quell’incontro, radicalmente.
Un incontro
Ero (adesso mi pare) poco piu’ che un ragazzo e il quotidiano per cui lavoravo, “Il Giorno”, mi aveva incaricato di seguire il Concilio Vaticano II, aperto da papa Giovanni: una sconvolgente primavera della Chiesa universale, i vescovi che tornavano a meditare, insieme, il vangelo e i segni dei tempi. Su una preziosa rivista cattolica, “Informations catholiques internationales”, lessi un’intervista a un sacerdote francese che non avevo mai sentito nominare: Paul Gauthier. Viveva a Nazareth, facendo il carpentiere, come Gesu’. Il suo vescovo lo aveva portato a Roma perche’ dicesse a tutti cio’ che, instancabilmente, diceva a lui: che la Chiesa doveva farsi povera, gli ecclesiastici rinunziare a ogni “seigneurerie” , annunziare il vangelo innanzi tutto ai poveri, stando in mezzo a loro, perche’ cosi’ aveva voluto Gesu’; e difendere i poveri da ogni oppressione. Talvolta erano stati, ma non cosi’ netti, pensieri e sentimenti anche miei. Andai a cercare Gauthier nella sala stampa del Concilio e scoprii un piccolo uomo, vestito di fustagno, con due occhi che sembravano schegge di turchese. Io parlavo una miserabile imitazione del francese e lui non sapeva l’italiano, tuttavia riuscimmo a intessere un dialogo. Paolo VI aveva appena annunziato che si sarebbe recato in Terra Santa nei primi giorni del ’64. “Forse – disse Gauthier – risponde a un invito che gli abbiamo rivolto, un gruppo di lavoratori di Nazareth”. E a Nazareth ci ritrovammo, se ricordo bene, il 31 di dicembre. Paul stava sulle impalcature di una casa in costruzione. A mezzogiorno le campane delle chiese annunziarono l’ora della preghiera mariana che si recitava allora in tutto il mondo e che nel villaggio dell’Annunciazione assumeva i colori della tenerezza e dello stupore. Pregammo insieme: “L’Angelo del Signore porto’ un messaggio a Maria…”. Erano giorni di straordinaria importanza per me, come lo sono stati certamente per tutti quelli che, negli anni scorsi, pellegrini in Terra Santa, hanno sentito il battere dei passi di Gesu’, adesso soverchiati dal frastuono orrendo di una feroce guerra che sembra inestinguibile. La mia fede era come rinnovata da un vangelo che leggevo nel profilo dei monti, sulle rive dei laghi, sulle pietre e nel corpo contorto degli ulivi. Ma andavo anche cogliendo due lezioni – come dire? – politiche: la prima metteva in crisi il mio filo-sionismo, la seconda, addirittura, la mia visione planetaria. Io ero felice della decisione del Concilio di bollare per sempre l’antisemitismo. Portavo con me, letti e riletti, i libri degli scrittori ebrei (soprattutto “Ladri nella notte” di Koestler), una totale simpatia per i kibbutz “comunisti”, la convinzione che la creazione dello Stato di Israele fosse stata l’ultima grande epopea della storia. In pochi giorni mi accadde di scoprire il colonialismo israeliano, l’importanza politica del fanatismo degli “ortodossi”, la pratica apartheid che colpiva gli arabi che avevano accettato di rimanere nei confini del nuovo stato. Ero salito al Memoriale del monte Sion e avevo pianto disperatamente davanti ai simboli della Shoah – e certo lo farei ancora. Avevo sentito (e ancora sento in me) la vergogna di essere figlio di un’Europa che ha accettato, prima, le leggi razziali e poi il genocidio. Detestavo l’oltranzismo dei corrotti governi arabi, degli speakers indemoniati che ruggivano dalle radio del Medio Oriente: “Gettiamo in mare tutti gli ebrei!”, cosi’ come oggi spasimo di fronte al terrorismo palestinese, considerandolo una malattia mortale che, grazie a Sharon, puo’ dilagare come una atroce epidemia. Ma coglievo gia’ allora che non si potevano calpestare i diritti di un popolo, improvvisamente invaso dai discendenti di un altro popolo, costretto a lasciare il paese duemila anni prima.
La Terra ferita
E scoprivo la poverta’ di massa: non quella che travagliava ancora ampie aree italiane ma quella, ben piu’ misera, in cui la stragrande maggioranza di uomini donne e bambini viveva nella piu’ assoluta precarieta’, nel freddo e talvolta (spesso!) nella denutrizione. Davvero la Terra era tanto ferita dalla disuguaglianza? Tra la lettura delle statistiche e la visione di volti e di corpi c’e’ un’immensa differenza. Tornato a casa, guardando con amore i miei bambini ben nutriti, riscaldati a termosifone, dissi a Clotilde che non avrei potuto continuare a vivere come se non avessi visto quella miseria. Clotilde ando’ a prendere i nostri piccoli risparmi e mi disse di spedirli a quel prete-operaio che mi aveva tanto colpito. Paul ci rispose con una lettera, dura. Spiegava: se avete capito che gli umani sono fratelli e che il Cristo si e’ immedesimato con i poveri (Mt. XXV, 31-46), allora e’ necessario spartire con loro, stabilmente, il nostro pane e le nostre speranze. Ci suggeri’ di dare vita a un’associazione cui si aderisse accettando di autotassarsi ogni mese per finanziare non un generico pauperismo ma gruppi di poveri che tentassero di uscire dalla loro oppressione. Cosi’ avvenne: cominciammo a sostenere la costruzione di case a riscatto, prima a Nazareth (sotto il controllo dell’Histadrut, la centrale sindacale israeliana), poi a Betlemme. Quando Paul ci scrisse che una bambina nazarena – Radie’ Resch – era morta di polmonite in un tugurio mentre attendeva di entrare finalmente in una di quelle case, decidemmo di dare il suo nome alla nostra associazione per ricordarci che se non si fa in fretta i poveri muoiono e, per primi, muoiono i bambini, Da allora la Rete Radie’ Resch si e’ espansa in tutta l’Italia ed e’ tuttora al lavoro, senza sedi, senza uffici, senza tessere: una cerchia di amici e di amiche che accettano un’avventura che li porta a contemplare, un po’ dovunque nel Sud del mondo, dolori e tragedie senza fine, ma anche li arricchisce di speranze che il Nord opulento sembra avere ormai perso, di poesie, di canzoni, di feste. Nel 1964 Clotilde ed io venimmo ad abitare a Roma. Si apriva la terza sessione del Concilio, Paul era riuscito a raccogliere un gruppo di 300 vescovi sensibili ai problemi che egli poneva. Si erano dati il nome di “Chiesa dei poveri”. Il gruppo aveva come “presidente” il grande cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna, assistito da don Giuseppe Dossetti; raccoglieva vescovi francesi, belgi, americo-latini; per gli italiani c’erano monsignor Pellegrino e monsignor Bettazzi. Paul stava a Roma con alcuni suoi “compagnons de Jesus Charpentier” e con Marie Therese (Myriam) Lacaze, una giovane francese che si era incontrata con lui e aveva fondato le “compagnes de Jesus Charpentier”. Scrisse piu’ tardi Paul: “La casa di Ettore e di Clotilde divenne un punto di riferimento per la ‘Chiesa dei poveri'”.
Un maestro scomodo
Le grandi speranze del Concilio non si realizzarono o, meglio, non si realizzarono tutte. Forse proprio quella di una riforma evangelica della vita ecclesiastica fu la piu’ vanificata. Quando Paolo VI scrisse che “al periodo sovvertitore dell’aratro” doveva subentrare il tempo della semina, le curie ripresero il loro potere, quella che fu chiamata “normalizzazione” cerco’ di imbrigliare la profezia, tagliandole, quando possibile, le corde vocali: come sempre “a fin di bene”, naturalmente, cioe’ per ripristinare l’ordine pubblico nell’organizzazione ecclesiale. Comincio’ allora la lunga avventura di Paul e di Myriam alla ricerca delle Terre promesse e – alla fine di una odissea dolorosa – approdati a una speranza senza illusioni ne’ sentimentalismi; durissima (secondo me troppo dura) nel rifiuto di ogni pretesa di sacralita’, ma illuminata, come scrisse Paul, da “una serena, illimitata fiducia in Gesu’ di Nazareth. Nel suo nome, il mio compito e’ quello di dare un volto alla speranza degli uomini, il volto della pienezza umana, in tutte le sue dimensioni. E’ vivere secondo la legge fondamentale dell’essere, l’amore. La Croce me ne ha insegnato le rinunzie. La Resurrezione, i superamenti”. Quando Paul scriveva quelle parole, aveva gia’ cercato con Myriam, i compagnons e le compagnes una inserzione nelle favelas brasiliane, aveva assistito agli orrori della guerra medio-orientale del 1967, vissuto in un campo profughi della Giordania dove egli e Myriam erano stati testimoni delle atrocita’ del Settembre Nero. Avevano viaggiato nel Laos, nell’India dei bambini rifiutati (Paul e Myriam ne avevano raccolti due e avevano dato loro una famiglia, sposandosi), si erano fermati per qualche tempo nel Libano devastato da una guerra fra fazioni religiose, poi (chiusa l’esperienza della piccola congregazione) avevano cercato di inserirsi nelle campagne francesi e in quelle umbre per radicarvi il loro sogno ambientalista. Ma il dramma palestinese continuava a essere per loro la croce piantata sul Golgotha del fondamentalismo sionista e dell’indifferenza delle cosiddette Grandi Potenze. Molto, molto meno audacemente, anch’io cercai di seguire la lezione evangelica di Paul, sia tentando di diffonderla in una quasi interminabile serie di conferenze in giro per l’Italia, in una lunghissima serie di articoli e di libri, sia cercando, per trent’anni, di seminare la Rete in tutta l’Italia. Clotilde mi fu accanto in questo cammino, talvolta piu’ difficile per lei che per me, condividendo con me idee e scelte di vita e aprendo generosamente la nostra casa ai testimoni del vangelo di giustizia (molti dei quali, credendosi agnostici o addirittura atei, non si rendevano conto di essere inseriti nella sequela del Cristo). Adesso che tanto tempo e’ passato e che siamo felicemente anziani, possiamo dirlo: l’essere amici di Gauthier e piu’ ancora l’avere cercato di vivere secondo i suoi insegnamenti ci sono costati molto in termini di carriera, di danaro e di prestigio: e anche, purtroppo, di affetti famigliari. E tuttavia, se ci guardiamo indietro, scopriamo quale ricchezza di amicizie e di speranze c’è stata donata dall’incontro con Paul; e crediamo di poter leggere nella sua letteralita’ un brano della Lettera agli Ebrei nel quale e’ scritto: “Vi sono alcuni che, praticando l’ospitalita’, hanno ricevuto fra loro degli angeli”.
Un santo?
Benche’ le idee mie e di Clotilde sulla Chiesa siano state spesso divergenti dalle sue al punto da sfiorare, in alcuni casi, una rottura, dolorosissima per noi e certamente per lui, io credo che Paul sia stato un personaggio inimitabile, profondamente legato al mistero di Betlemme e di Nazareth. Vederlo inginocchiato davanti a un povero paralitico di Trastevere, che non comprendeva una sola sillaba del suo francese ma capiva il suo amore e lo chiamava “papa’”, o celebrare la messa quasi intorno all’altare si assiepasse una immensa folla di miseri, o ergersi, per cosi’ dire, nel suo esile corpo mentre leggeva il vangelo, come se una grande forza si sprigionasse in lui, provocava in molti (certamente in me) la sensazione di un incontro di decisiva importanza. Mi ricordo quando battezzo’ il nostro piccolo Pietro: il bambino piangeva, smise di piangere appena lui lo prese fra le sue braccia e lo guardo’ negli occhi, sorridendo. Mi capito’ allora di pensare: “E’ un santo”. Sono passati da quel giorno 37 anni, la nostra amicizia e’ stata percossa da incomprensioni ed equivoci, da dissensi anche radicali, ma quella convinzione non mi ha abbandonato.
Due idee-base
Paul diede alla Rete Radie’ Resch un impulso straordinario durante le sue permanenze in Italia. La sua evangelizzazione sapeva superare i muri dei ghetti religiosi, i pregiudizi, le miserie delle superstizioni e dei codici formalisti. Persone che non accettavano di dirsi cristiane lo ebbero carissimo e riaprirono con lui le pagine delle Scritture. Tuttavia una delle sue idee-base, quella dell’immedesimazione del Cristo nei poveri e dunque della necessita’ che la Chiesa si sentisse costantemente spronata dalle loro sofferenze a predicare quello che egli chiamava “il vangelo di giustizia”, non risultava a molti meno scandalosa dell’altra, “politica”, che avrebbe fortemente permeato la vita della Rete. Al primo convegno nazionale dell’associazione Paul Gauthier disse: “Cio’ che e’ importante e’ che mentre noi la’ (a Nazareth) viviamo fra gli operai, voi, qui, agiate sulle strutture sociali per impedire che si fabbrichino ancora dei poveri. Perche’, se riflettiamo sul mondo nel quale viviamo, vediamo che c’e’ un’autentica fabbricazione di poveri. Il sistema nel quale viviamo e’ un sistema che, per le stessi leggi che vi vigono, permette a coloro che possiedono dei beni di possederne ogni giorno di piu’, grazie al fatto che il lavoro e’ insufficientemente protetto e serve da materia prima all’arricchimento degli altri (…). E’ inutile che voi doniate parte della vostra intelligenza, della vostra preghiera, del vostro denaro per aiutare i poveri se nello stesso tempo non lottate con tutte le vostre forze per sopprimere le strutture che fabbricano i poveri (…). Ciascuno di noi, nell’ambiente che gli e’ proprio. deve dare il suo contributo, non soltanto cercando di aiutare i poveri a combattere la loro poverta’ ma anche individuando e combattendo le cause della poverta’”. Era l’autunno del 1965; Le idee di Gauthier, a me sembra, ponevano il seme della teologia della liberazione e insieme avviavano il mondo cattolico a una critica piu’ lucida e radicale del capitalismo. Dio benedica il suo riposo.
L’indirizzo di Myriam Lacaze-Gauthier, alla quale spero molti vogliano inviare un messaggio di affetto, e’: 19, rue Henri Tasso, Marseille 13002, France, tel. 0033/491918767.
1 Grandi C., Radie’ Resch, Una storia di solidarieta’, prefazione di E. Balducci, Borla, 1992. Ongaro E., Nel vento della storia, 30 anni della Rete Radie’ Resch, pref. di A. Paoli Cittadella, 1994. 2 Gauthier P., E il velo si squarcio’, Qualevita, 1988. (L’indirizzo delle Edizioni Qualevita e’: via Buonconsiglio 2, 67030 Torre dei Nolfi, AQ). Gli altri libri scritti da Gauthier sono: I poveri, Gesu’ e la Chiesa, Borla, 1963; Con queste mie mani. Diario di Nazareth, Borla, 1965; La Chiesa dei poveri e il Concilio, Vallecchi, 1965; Vangelo di giustizia, Vallecchi, 1968; Gesu’ di Nazareth, il Carpentiere, Morcelliana, 1970 (gli ultimi tre tradotti da Clotilde).