INTRODUZIONE
Non si scriverà mai abbastanza sui mali del lavoro minorile. Non si scriverà mai abbastanza sui mali fisici, psichici, intellettivi, morali, subiti dai bambini che sono condannati al lavoro. Naturalmente non stiamo parlando dei bambini che danno una mano nelle faccende di casa o dei bambini che nei ritagli di tempo aiutano i loro genitori nei campi o nelle botteghe artigianali. Questi lavori contribuiscono alla loro formazione perché educano al senso di responsabilità. In discussione è il lavoro svolto nelle fabbriche, nelle piantagioni, nelle miniere e in molti altri luoghi, per arricchire i padroni. In altre parole vogliamo porre all’attenzione il lavoro come forma di sfruttamento dei tanti bambini (oltre 100 milioni) nati nella parte sbagliata del mondo. I bambini che non hanno diritti e che navigano nel mare dell’indifferenza. In questo DOSSIER “il GRILLO parlante” si unisce a quanti (piccoli organi di informazione, gruppi religiosi, politici e della società civile) sognano di mettere fine a questo scandalo. É un nostro dovere. É un loro diritto.
Offesi dal silenzio
[di Mani Tese]
Si aprono scenari ottocenteschi se ci si affaccia ai bordi di una miniera d’oro peruviana, dove il 20 % dei lavoratori ha fra gli 11 e i 18 anni e le condizioni sono durissime. O se si accompagna un piccolo carbonaio brasiliano in mezzo alla fuliggine. O uno spaccapietre, sovente schiavo per debiti, di dieci anni, nella cava di Faridabad, India, che rischia di diventare cieco per la polvere e il riverbero. O se si osservano le mani da vecchio di un piccolo fabbricante di mattoni a Bogotà. O se si cerca di respirare nei 50 gradi di una vetreria indonesiana dove i bambini lavorano ai forni senza protezione.
PROSTITUZIONE
Bambini e bambine avviati alla prostituzione per soddisfare gli appetiti sessuali di ricchi turisti e uomini d’affari. 500.000 bambini e bambine prostituti in Brasile (secondo il Ministero degli Affari sociali), 300.000 in Thailandia, 100 mila nelle Filippine, 300.000 in India, 50.000 in Vietnam, 40.000 in Pakistan.
FRUTTA PER CONSUMATORI MOLTO LONTANI
Quanti ragazzi muoiono ogni anno manipolando pesticidi nelle piantagioni? E` raro che la notizia di ragazzini morti intossicati tra le banane – ad esempio – del Centro America, arrivi fino a noi. In Bangladesh, Nepal e India invece sono le piantagioni di tè a incorporare lavoro infantile in quantità (in Assam il 70 % della manodopera). Orari enormi, paghe minime. Ciò consente i profitti altissimi delle multinazionali del tè e delle loro associate locali. Se solo fossero disposte a rinunciare a una piccola parte dei loro profitti, esse potrebbero aumentare le paghe dei lavoratori senza perdere di competitività e in un colpo solo si eliminerebbe il lavoro minorile, la denutrizione e l’analfabetismo.
CONCIATI PER LE FESTE
Cairo e dintorni. Nelle concerie lavora una parte dell’1,4 milioni di piccoli egiziani fra i 6 e i 14 anni. Le condizioni di lavoro sono le stesse da sempre: ma si sono aggiunti molti prodotti chimici e i bambini continuano a lavorare a mani e piedi nudi. In India, Brasile o nel Sud-Est asiatico lo spettacolo e più o meno lo stesso.
ABITI, SETA E SCARPE PER CONSUMATORI LONTANI
Sono i prodotti di bassa tecnologia e largo consumo quelli con la cui produzione per l’esportazione paesi come Thailandia, Cina, Indonesia e India stanno tentando la scalata dello sviluppo industriale. Di mezzo ci sono le multinazionali che in genere appaltano il lavoro a ditte locali, le quali a loro volta lo subappaltano a ditte locali, le quali a loro volta lo subappaltano a ditte più piccole. In questo “giro” si annida il lavoro dei bambini, difficilissimo da scovare. In Indonesia il lavoro minorile è legalizzato (ma solo per 4 ore al giorno) e le piccole tute blu dell’industria manifatturiera sono almeno 300.000. Per salari bassissimi bambini e bambine lavoratori di 10-l2anni, assunti al posto dei genitori, vivono lontano dalle famiglie. Nel 1991 è stata denunciata la presenza di piccoli al lavoro anche nelle fabbriche che producono costose scarpe per la famosa multinazionale Nike, che fa i propri bilanci lesinando la lira ai lavoratori e spendendo miliardi in pubblicità. Un’altra marca famosa, la Adidas, ha trasferito la produzione in Asia, chiudendo tutti gli stabilimenti europei.
L’INCUBO DEI GIOCATTOLI
Sull’etichetta ci sarà pure scritto Mattel o Chicco; ma ormai l’80% dei giocattoli di tutto il mondo è fatto in Cina (dove lo stesso Ministero del lavoro si è detto preoccupato per la situazione dei bambini), Thailandia e Indonesia. Bambini che per 12 ore si trovano a contatto con plastica infiammabile, in ambienti surriscaldati, con poco cibo e dormendo in capannoni-ghetto. Nel 1993 due fabbriche di giocattoli, in Thailandia e Cina, hanno preso fuoco. Centinaia le vittime, tra cui molte ragazzine. Una delle due fabbriche produceva per la Chicco.
TAPPETI PER L’ELEGANZA DI CASE MOLTO LONTANE
Un milione di bambini tessono tappeti su decine di migliaia di telai sparsi fra il Pakistan, l’India e il Nepal. Antiche ditte di esportazione si rivolgono a intermediari locali che a loro volta girano l’ordine ai proprietari di telai. Questi poi affidano il compito a tessitori che producono con l’aiuto di alcuni salariati. Molti gli intermediari, e tutti vogliono guadagnarci. Rifacendosi sui dipendenti finali, che spesso sono bambini: preferiti non solo per via delle piccole dita molto adatte al lavoro, ma anche perché gli adulti non sono disposti a farsi sfruttare proprio fino all’osso. I bambini non hanno scelta. Prelevati da lontani villaggi con l’inganno di buone prospettive e con la corresponsione di un anticipo agli ignari e poverissimi genitori, vengono imprigionati in stanzette anguste, con poca luce, a rovinarsi ossa e vista dietro un telaio fabbricando nodi su fili ben tesi, dormendo poi nello stesso locale in mezzo alla polvere, nutriti male. Quando si tagliano la ferita viene bruciata con un fiammifero per non sporcare i tappeti di sangue.
DOMESTICI DELLE FAMIGLIE RICCHE
Non li vede nessuno ma sono a milioni i piccoli domestici, dai 6 anni in poi, molto spesso pagati solo con il cibo – poco e diverso da quello dei padroni – e maltrattati. Ad esempio sono 100.000 i bambini resteaveck (resta con) haitiani, che le famiglie rurali povere affidano ai cittadini. A volte questi piccoli servitori vengono portati all’estero dai padroni. Questo fenomeno e stato rilevato nel 1994 dall’associazione Anti-Slavery International che ha denunciato famiglie di diplomatici di stanza in Svizzera e Francia.
SCHIAVI PER DEBITI
In India, Pakistan, Brasile, Perù, Haiti una famiglia povera che si indebita rischia forte: prende un prestito da un usuraio e si ritrova a lavorare finché non ha ripagato il debito. Ma gli interessi sono troppo alti e la condizione di schiavitù si tramanda di padre in figlio, in agricoltura, nelle cave, nelle fornaci o nelle miniere, sui tappeti, nelle vetrerie o nelle fabbriche di fiammiferi. II tutto a dispetto dei divieti previsti dalla legge. In Pakistan si stima che siano 8 milioni i bambini in schiavitù, su 20 milioni di adulti.
FRA RIFIUTI E TRAFFICO
80 milioni di bambini lavorano per strada, anche se i più hanno una “casa”. Alla periferia Manila sono in l2.000 a scalare la montagna “fumanete” (di rifiuti) per selezionare il minimo residuo utile. Lo stesso avviene nelle vie e nelle discariche di tutte le città del Terzo mondo. Un lavoro ad estremo rischio sanitario che attira il disprezzo su chi lo svolge. Altri fanno i giornalai, i lavavetri o i lustrascarpe. Altri ancora, in Asia, fanno gli asini: trasportano esseri umani e merci sul risciò, sfruttati dal proprietario del medesimo.
100 milioni di senza sorriso
[di Mani Tese]
Oggi in Colombia Pedro Faustina Rincon, otto anni, la metà di quanti ne dovrebbe avere se le leggi fossero rispettate, lavora duramente in una miniera di Bogotà. Ebbene, 110 anni fa tanti Pedro Faustina Rincon vivevano, forse ancora più sfruttati, nelle miniere francesi. Era l’anno in cui Emile Zola, dopo una approfondita indagine sul terreno – anzi nel sottosuolo – pubblicò “Germinal”, libro denuncia che descrive il lavoro spaventoso di uomini e bambini minatori costretti ad arrampicarsi in cunicoli senz’aria. Lydie, dieci anni, lo stupiva per la sua forza di magra formichina in lotta contro un peso troppo grosso. “Un lavoro da galere, ci si lasciava la pelle talvolta, e per che cosa? Si mangiava, ma poco, quanto bastava per soffrire senza crepare, schiacciati dai debiti, perseguitati come se il pane lo si fosse rubato”. II 28 marzo 1882 in Francia l’istruzione primaria diventa obbligatoria e gratuita e questo, insieme alle conquiste dei lavoratori adulti, si rivela il miglior rimedio contro il lavoro dei bambini. Ma in giro per il mondo, dopo 110 anni, lo sfruttamento dei bambini persiste. Concentrati in Asia, Africa e America Latina più di cento milioni di bambini fra i 5 e i 15 anni (a seconda dei parametri di calcolo anche 150 milioni) si alzano presto, mangiano un po’ di zuppa della sera prima e partono ad affrontare una giornata di lavoro che può durare anche 18 ore e che nel 50% dei casi è malsana e pericolosa. All’inizio degli anni ’80 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro OIL (organo tripartito formato da rappresentanti dei governi, dei sindacati e degli imprenditori) e l’Unicef si tenevano sugli “oltre 50 milioni”. Ma nel frattempo la situazione della maggior parte dei paesi si è deteriorata e l’aumento della disoccupazione e sottoccupazione adulta ha contribuito, paradossalmente, ma non troppo, a gonfiare il numero di bambini lavoratori per necessità di famiglia. Lo spartiacque legale è fissato ai 15 anni, età minima di ammissione al lavoro stabilita dalla convenzione dell’OIL n.138 del 1973. firmata da decine di stati.
ALCUNE DISTINZIONI
La stessa Unicef (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia) fa una distinzione netta fra due categorie di bambini lavoratori: quelli che aiutano all’interno della famiglia contadina o artigiana che lavora in proprio, e per povertà e mancanza di infrastrutture e garanzie sociali ha bisogno di braccia infantili. Il bambino può lavorare qualche ora e andare a scuola o in altri casi lavora tutto il tempo, ma non si può parlare di sfruttamento, solo di miseria; quelli che vengono sfruttati da un padrone, magari una multinazionale. Ugualmente occorre distinguere fra i casi meno gravi – il lavoro per alcune ore, in settori che non pregiudicano la salute e la crescita – e quelli più gravi, cioè il lavoro a tempo pieno e in condizioni di nocività.
Accordi non rispettati. La Convenzione 138 dell’OIL sull’età minima lavorativa
[di Amedeo Tosi]
(…) L’età minima di ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età prevista per il completamento della scuola dell’obbligo e in ogni caso non deve essere inferiore ai 15 anni. In deroga, i paesi con un’economia e strutture scolastiche insufficientemente sviluppate possono fissare l’età minima di avvio al lavoro a 14 anni, previa consultazione con le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori. L’età minima per l’ammissione a qualunque tipo di impiego o lavoro che per sua natura o per le circostanze in cui è svolto può danneggiare la salute, l’incolumità o la morale dei giovani non deve essere inferiore ai 18 anni. In deroga, le autorità nazionali possono abbassare a 16 anni l’età di svolgimento del lavoro a rischio a condizione che la salute, l’incolumità e la morale dei giovani siano pienamente protette.
Età di avvio al lavoro fissata per legge
Algeria16 anni, Antigua e Barbuda 15, Belgio 15, Bielorussia 16, Brasile 14, apprendistato a 12, Bulgaria 16, Cina 16, Costa Rica 15, Cuba 15, Egitto 12 (massimo 6 ore al giorno), Filippine 15, Francia 16, Germania 15, Grecia 15, Guatemala 14, Guinea Equatoriale 14, Honduras 14, India al di sotto dei 14 anni proibite attività pericolose, al di sotto dei 12 divieto assoluto, Indonesia il lavoro è permesso ma con il limite di 4 ore e niente notte, Iraq 15, Irlanda 15, Israele 15, Italia 15, Kenya 16, Libia 15, Lussemburgo 15, Malta 16, Mauritius 15, Nicaragua 14, Niger 14, Norvegia 15, Olanda 15, Pakistan 15 per miniere e ferrovie, 14 per il resto, Polonia 15, Rep. Dominicana 15, Romania 16, Ruanda 14, Russia 16, Spagna 15, Tanzania 12, Thailandia 13, Togo 14, Ucraina 16, Uruguay 15, Venezuela 14, Yugoslavia 15, Zambia 15 anni.
Quando la legge è dalla parte del più indifeso
[di Amedeo Tosi]
L’affermazione a livello internazionale di una serie precisa di diritti propri di ogni bambino e ragazzo, intendendo con tale termini le persone di età inferiore ai 18 anni, rappresenta una conquista di questi ultimi decenni. Prima del XX secolo il bambino non era stato considerato e riconosciuto nella sua dignità di persona umana. Bisogna arrivare agli anni Venti perché a livello internazionale si muovano i primi passi sulla strada del riconoscimento di diritti specifici per il bambino. Da tale momento in poi si sono fatti significativi progressi, che qui vengono ricordati, richiamando i documenti internazionali più significativi in merito. Il primo è la “Dichiarazione di Ginevra” (1924), adottata dall’Unione internazionale per il soccorso all’infanzia, un’associazione sorta su iniziativa del Comitato internazionale della croce rossa. Quasi venti anni dopo, nel 1942 a Londra, viene pubblicata la “Carta dell’infanzia”, elaborata dalla Ligue internationale pour l’éducation nouvelle. Bisognerà aspettare altri sei anni per avere la “Dichiarazione dei diritti dell’infanzia”, redatta a Ginevra nel1948 ad opera dell’Associazione internazionale per la protezione dell’infanzia. Nello stesso anno, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Sempre l’Assemblea generale delle nazioni Unite adotta, il 20 novembre 1959, la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”. Devono passare altri quattordici anni perché il 6 giugno 1973, finalmente, l’Organizzazione internazionale del lavoro elabori la già più volte richiamata “Convenzione internazionale n.138”, relativa all’età minima di ammissione al lavoro. Questa Convenzione è stata ratificata finora da una cinquantina di Paesi. A chiudere l’elencazione dei documenti a favore dei bambini è un’altra convenzione, la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”,approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata, a tutt’oggi, da 187 Paesi su 193 (mancano all’appello le Isole Cook, la Somalia, gli Emirati Arabi Uniti, il sultanato di Oman, la Svizzera e gli Stati Uniti).
Bambini al lavoro: quanti per paese?
Stime di sindacati e associazioni (le stime dei governi sono inferiori) India, 55-60 milioni di lavoratori. Oltre 5 milioni di bambini sono schiavi (prostituzione e traffico di bambini). Cina, almeno 5 milioni. Buon tasso di frequenza scolastica, ma alta partecipazione ai lavori agricoli. Pakistan, 8 milioni , molti dei quali in schiavitù. Bangladesh, 15 milioni. Thailandia, 3 milioni di bambini lavoratori. Più di 300 mila si prostituiscono. Nigeria, 10 milioni. Brasile, 8 milioni. Oltre mezzo milione si prostituisce. Le squadre della morte uccidono i bambini di strada. Egitto, 1,4 milioni (stima governativa). Filippine, 5,7 milioni nei soli settori industriale e commerciale. Germania, 300.000 bambini lavoratori turchi. Italia, oltre 500 mila. Portogallo, 200 mila. Stati Uniti, 1 milione di bambini lavoratori di origine messicana. 600.000 bambini nella prostituzione. Messico, circa 10 milioni. Colombia, 3 milioni. Bolivia, il 65% dei bambini dai 5 ai 16 anni. Sudan, molti in schiavitù. Arabia Saudita, schiavitù, traffico di adolescenti, sfruttamento abusivo delle domestiche asiatiche. Repubblica Sudafricana, 650.000 bambini neri in età inferiore ai 15 anni lavorano nei campi. El Salvador, lavoro nelle piantagioni, arruolamento nella guerriglia e nell’esercito. E l’infernale lista continua…
India: giovani contro la prostituzione
[di Amedeo Tosi]
In India per i bambini in schiavitù si comincia ad aprire uno spiraglio di salvezza. La speranza si chiama “Bounded Labour Front”, un movimento guidato dal coraggioso, Kailash Satyarthi. Egli usa molte strategie per combattere il lavoro in schiavitù e una delle più importanti è l’organizzazione di incursioni a sorpresa per liberare i bambini. Di solito su richiesta dei genitori. Procedendo con grande segretezza: prima cercano informazioni, poi si passa alla liberazione vera e propria avvalendosi di volontari e della collaborazione della polizia. Il “GRILLO” ha chiesto a padre Giuseppe Satya, missionario verbita indiano in servizio a Vicenza, di raccontarci la propria esperienza in merito: “Una delle mie esperienze indimenticabili con i giovani in India è stata quella di vedere come questi hanno salvato molte ragazze dalla prostituzione. Nelle grandi città come Bombay e Calcutta ci sono bande organizzate che vanno nei villaggi più remoti e con un mucchio di false promesse portano giovani ragazze nella città, forzandole poi nella prostituzione. Anche se riscattate da questa terribile esperienza non possono più integrarsi nella loro società perché la cultura e le tradizioni locali non lo permettono. Si trovano quindi ad essere emarginate dalle loro comunità. I giovani che vogliono salvare queste vite passano dei grandi rischi, tentando di strapparle dalle mani di questi banditi. Ci vuole più di un anno per prendere contatti e fare un piano dettagliato di fuga. Chi viene scoperto viene ucciso. Però i giovani con il loro coraggio e impegno sono riusciti a salvarne quasi 200, aiutandole ad inserirsi in diverse famiglie ed istituzioni”. L’organizzazione di Kailash Satyarthi in dieci anni è riuscita a liberare oltre 6000 bambini.
In schiavitù nei laboratori di tappeti
Molti tappeti annodati a mano, provenienti dall’India, dal Pakistan e dal Nepal, sono stati fabbricati da bimbi di dodici, otto e anche sei anni, costretti a stare per 12-15 ore al giorno nella stessa posizione. Il loro lavoro consiste nel fare nodi su dei fili ben tesi che corrono dal tetto al pavimento montati su dei sostegni. Per questo stanno tutto il giorno seduti su una panca, con le braccia sollevate. A seconda delle dimensioni del tappeto, sulla panca siedono, gomito a gomito, anche dieci ragazzi intenti a formare disegni complicati. Al minimo errore sono picchiati. La giornata di lavoro comincia al mattino presto e finisce a notte fonda con due o tre interruzioni per mangiare e per fare i propri bisogni. La sera, quando il padrone decide che è ora di smettere, i ragazzi scendono dalla panca e si mettono a dormire sul pavimento di terra battuta. Il padrone, andandosene, chiude la porta a chiave per impedire che scappino. I bambini ricevono poco da mangiare e sono pieni di croste a causa della sporcizia. Molti soffrono di disturbi respiratori ed hanno ampie cicatrici sulle mani. Un bambino racconta perché: “Spesso capita che ci tagliamo con i coltelli che usiamo per lavorare. Allora il padrone ci riempie la ferita di zolfo e gli dà fuoco. Il dolore è terribile, ma la ferita smette di sanguinare e possiamo seguitare a lavorare senza sporcare i tappeti si sangue”.
I marchi Rugmark e Transfair
[A cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo]
Ogni volta che ci si rivolge ad un consumatore chiedendo di non comprare una marca, perché poco etica, è importante indicare quale altra marca può essere comprata in alternativa. Per questo le associazioni che lottano contro il lavoro minorile hanno deciso di creare un marchio per segnalare i tappeti che sono stati ottenuti senza l’impiego di lavoro minorile. Il marchio è stato denominato “RUGMARK” ed è utilizzato soprattutto in America del Nord e in Europa del Nord. L’idea del marchio non è nuova ed ormai esistono vari tipi di marchiature, una per ogni aspetto che si vuole difendere. I più noti sono i marchi ambientali attraverso i quali si segnala al consumatore che il prodotto è stato ottenuto nel rispetto dell’ambiente. Ma ancora prima dei marchi ambientali sono sorti i marchi di garanzia sociale (Transfair, per il commercio equo e solidale, n.d.r.) per avvertire i consumatori che quel prodotto è stato ottenuto nel rispetto di particolari aspetti sociali come il lavoro minorile o i diritti dei lavoratori. Il problema di ogni marchio è chi può attribuirlo e come si garantisce al consumatore che è tutto a posto. Nel caso del Rugmark si è costituita in India una commissione di controllo che ha alle sue dipendenze degli ispettori che fanno dei sopralluoghi in tutti i laboratori che chiedono di poter esporre il marchio.
OK. La scarpa è… giusta
[di Marinella Correggia (Mani Tese)]
Una scarpata in faccia alla potente Nike l’aveva data, nel maggio del 1996, l’americana “Made in US Foundation” denunciando il ricorso a bambini di 10-11 anni nelle fabbriche asiatiche che producono in subappalto le famose scarpe sportive con lo “sbaffo”. Nike aveva nicchiato; ma dopo qualche tempo aveva ricevuto stavolta una pallonata in faccia: la copertina della famosa rivista “Life” che ritraeva un bambino pakistano intento a cucire palloni di cuoio marcati Nike. D’altronde da qualche anno l’attivista Jeff Ballinger, fondatore del gruppo “Press for change”, porta prove su prove circa le scandalose differenze tra le remunerazioni dei lavoratori indonesiani della catena Nike (poco più di un dollaro al giorno) e quelle dei campioni della pubblicità a cui la multinazionale affida la propria immagine. Per difendere la quale, la società nega che il lavoro infantile sia diffuso presso i suoi fornitori asiatici. Ormai tutta la produzione di scarpe sportive è volata verso l’Asia dei paesi a bassissimo salario: dapprima Corea e Taiwan, poi quando là i sindacati sono diventati forti, via di corsa verso i nuovi paradisi, Vietnam, Indonesia e Cina. Non è solo una questione di lavoro under 14. Se è vero come è vero, che i bambini lavorano quando i loro genitori non guadagnano abbastanza, ecco che le paghe ridicole degli stessi adulti diventano il problema centrale. In un primo tempo la protervia della società si è spinta al punto di dire: “Beh, se non vogliamo far pagare troppo le nostre scarpe ai ragazzini europei e americani, dobbiamo risparmiare sui costi di produzione”. Si veda la tabella allegata, da cui risulta che sul prezzo finale di vendita di un paio di scarpe pari a lire 112.000, la manodopera incide per lire 1890. Il fatto è che intasca di più un solo campione sportivo -per la pubblicità fatta alla Nike- di tutti i lavoratori indonesiani, che sono decine di migliaia. Nike ha un bel dire: “Noi siamo a posto, abbiamo approvato spontaneamente un codice di condotta che i produttori locali devono seguire in ogni paese del mondo, Indonesia o Vietnam che sia”. Peccato che questo sia: a) ridicolo nei contenuti (non si parla affatto di salario confacente ai bisogni vitali di un lavoratore, e le ore di lavoro settimanali devono essere… 60, cioè dieci al giorno per sei giorni alla settimana); b) privo di ogni meccanismo di verifica esterno alla Nike stessa. Insomma chi va a verificare se gli svariati fornitori asiatici rispettano il codice volontario della Nike? Cambiamo marca. La Reebok, secondo colosso della scarpa sportiva, in Italia detiene il 20% del mercato, contro il 30% della Nike, passa per essere migliore. Dà premi di bontà ogni anno agli attivisti dei diritti umani, e ha un codice di condotta più serio. Rimane il problema che nessuno ne verifica il rispetto. E così, ai salari da fame si somma l’assoluta insicurezza del lavoro, la pericolosità degli ambienti e la coazione fisica. Le multinazionali se ne lavano le mani: non sono loro dipendenti quelli, loro comprano e basta. “Non dimentichiamo che negli anni ’70 le multinazionali si opposero a ogni tentativo da parte dell’Onu di imporre loro dei codici di condotta coercitivi; ora si fanno belle con codici volontari, una burletta” dice Pradeep Metha, indiano, direttore dell’organizzazione dei consumatori Cuts. Ecco il perché della Campagna “Scarpe giuste” lanciata dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (autore del libro “Sulla pelle dei bambini – denuncia del lavoro infantile nel mondo). La Campagna chiede ai cittadini e consumatori italiani di mandare agli uffici italiani di Nike e Reebok e ai loro rivenditori apposite cartoline per chiedere codici di condotta seri e soprattutto verificati da controlli indipendenti condotti da sindacati e associazioni. “Prendiamo di mira Nike e Reebok perché sono le più grandi multinazionali del settore. Ciò non significa che le imprese minori siano esenti da critiche. Anzi abbiamo motivo di credere che le loro scarpe siano ottenute più o meno nello stesso modo. Purtuttavia, abbiamo pensato di rinviare la pressione su di loro al momento in cui avevamo maggiori informazioni sul loro operato. Del resto sappiamo che la concorrenza impedisce alle piccole imprese di comportarsi diversamente finché non cambiano le grandi”, spiega Francesco Gesualdi, del Centro di Vecchiano. Per farle cambiare i consumatori hanno un mezzo: il boicottaggio. Oltre 3000 persone in Italia hanno già aderito alla Campagna, e hanno scritto a Nike e Reebok, mentre ultime notizie dicono che si sta allargando la terra bruciata attorno alle due ditte. Un esempio: l’Uisp, la più grande associazione non-profit di promozione sportiva, ha rinunciato a 200 milioni di sponsorizzazione dalla Nike, e ha devoluto i soldi derivanti dal contratto ancora in corso a Transfair per il finanziamento di un progetto da realizzarsi in Pakistan a favore di palloni sportivi prodotti senza lavoro minorile. Ma intanto… avete bisogno di un paio di scarpe sportive e non sapete più che santo votarvi? In attesa di avere informazioni più precise sul comportamento delle marche italiane, o di una conversione di Nike e Reebok, l’esperto di sfruttamenti Jeff Ballinger consiglia: “Verificate che le scarpe siano quantomeno “made in Corea” o “made in Taiwan”: là le condizioni di lavoro e di salario sono nettamente migliori rispetto agli altri paesi asiatici”.
Italia: lavoro minorile per 500 mila
[A cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo]
In Italia l’età minima per lavorare è fissata a 15 anni, in coincidenza col termine dell’obbligo scolastico, ma per l’agricoltura la legge fa un’eccezione ed ammette l’assunzione a 14 anni, purché si tratti di un lavoro stagionale che non compromette la frequenza a scuola. “Ma in alcune regioni d’Italia questo limite non è rispettato e nella sola provincia di Reggio Calabria i giovani sotto i 14 anni impiegati stabilmente in agricoltura sono almeno 15 mila” denuncia Demetrio Costantino, segretario della Confederazione Coltivatori della provincia. “Le aziende ricorrono al lavoro minorile per non pagare i contributi”. La CGIL ha calcolato che in tutt’Italia i bambini che lavorano illegalmente sono 500 mila, molti dei quali si trovano nel Meridione. Novanta mila in Campania e, nella sola Napoli, 35.000. Il 23% di loro guadagna meno di 10.000 a settimana e solo il 18% supera le 20.000 lire. Dunque si tratta di una manodopera molto a buon mercato che è utilizzata tantissimo nei laboratori dell’imitazione, di cui Napoli è diventata specialista. I bambini sono impiegati perfino nei supermercati e naturalmente negli esercizi pubblici. Purtroppo alcuni finiscono anche come “manovalanza” della malavita organizzata. Ogni tanto a Palermo, dei bambini sotto ai dieci anni sono sorpresi a vendere eroina.
Come eliminare il lavoro minorile?
[A cura dell’Ass. Chittagong]
“Per combattere efficacemente il lavoro minorile dobbiamo assumere contemporaneamente una serie di iniziative” spiegano al Centro Nuovo Modello di Sviluppo “che si possono sintetizzare in tre slogan: prevenire, scoraggiare e soccorrere”. In altre parole bisogna: 1) lottare contro la povertà affinché le famiglie non abbiano più bisogno di far lavorare i loro figli, e garantire la scuola obbligatoria e gratuita (spendendo in dieci anni 25 miliardi di dollari -meno di quanto gli americani spendono in birra e gli europei in vino in 2 anni- secondo i calcoli del rapporto Unicef 1993 si potrebbero dotare tutte le comunità di acqua potabile, sanità e istruzione di base); 2) penalizzare le imprese che ricorrono al lavoro minorile; 3) aiutare i bambini che già lavorano a recuperare i loro diritti.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Novembre/Dicembre 1997 del giornale «il GRILLO parlante»