18.03.08 – Verona – «Diritti umani e pari opportunità: DIRITTO ALLA PACE e ALLA SICUREZZA»

60° anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani; 60° anniversario della costituzione della Repubblica Italiana. Martedì 18 marzo alle ore 17.30 presso la Sala Rossa della Provincia di Verona, in via S.Maria Antica 1, sono convocate la 1° e l’8° Commissione del Consiglio Provinciale (in audizione pubblica) sul tema: «Diritti umani e pari opportunità: DIRITTO ALLA PACE e ALLA SICUREZZA». Interverrà il prof. Antonio Papisca, Direttore del «Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli» dell’Università di Padova e consulente della Regione Veneto; verranno esaminate le mozioni n. 117/07 sulla campagna di liberazione dalle armi nucleari sul territorio nazionale (Cons. Ferrari) e n. 120/07 sulla necessità di ridurre le spese militari (Cons. Ferrari).

ABCDiritti umani

di Antonio Papisca

Qual è il nesso diritti umani/pace?
Il diritto alla pace è un diritto cosiddetto di terza generazione. E’ pertanto un diritto della persona e un diritto dei popoli, un diritto individuale e un diritto collettivo. Viene anche definito come diritto-sintesi o diritto-strategia in considerazione del fatto che la sua realizzazione è funzionale, anzi propedeutico alla realizzazione di tutti gli altri diritti e comporta l’adozione di programmi d’azione di ampia portata ed estensione.
Sul piano mondiale, il diritto alla pace non figura nella lista dei diritti umani fondamentali contenuti nelle convenzioni giuridiche internazionali: siamo dunque, ancora, allo stadio delle “dichiarazioni”, cioè alla soglia della norma giuridicamente vincolante.
Nel “laboratorio diritti umani” del sistema delle Nazioni Unite si sta lavorando per questo riconoscimento formale, assumendo il collegamento stretto (perché logico, naturale) del diritto alla pace al diritto alla vita. Sul piano continentale, il diritto è formalmente riconosciuto come “diritto dei popoli” (non, però, degli individui) dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli.
In Italia, la Costituzione non parla di diritto alla pace. Il riconoscimento formale del diritto alla pace, come diritto della persona e come diritto dei popoli, è invece avvenuto nell’ordinamento regionale del Veneto e in quello della Provincia autonoma di Trento nonché in migliaia di Statuti di Comuni e Province.
La resistenza degli stati a inserire il diritto alla pace nella lista dei diritti internazionalmente riconosciuti con norma giuridica discende dall’esplicita, definitiva desovranizzazione dello stato che il riconoscimento giuridico di questo diritto comporta. Giova ricordare che, “da sempre”, nei rapporti internazionali lo stato si fa portatore di un duplice attributo di sovranità: lo jus ad bellum (diritto di fare la guerra) e lo jus ad pacem (diritto di fare la pace). Se la guerra è vietata – com’è vietata – ai sensi della Carta delle Nazioni Unite e il diritto alla pace viene trasferito dallo stato in capo a ciascuna persona umana e a ciascun popolo, cade definitivamente la costruzione giuridica (e ideologica) dello stato come iper-personificazione del potere e della legalità, come entità assoluta: lo stato rimane nudo come “machina machinarum” (N. Bobbio), da riconvertirsi strutturalmente a fini di pace.
Avvalendosi dei documenti ufficiali finora elaborati dalle Nazioni Unite e da altre istituzioni intergovernative, la cultura della pace considera il diritto alla pace come un diritto fondamentale della persona e dei popoli. Questa stessa cultura, precorrendo il formale riconoscimento giuridico in sede internazionale, è riuscita, come prima ricordato, a fare riconoscere il diritto alla pace come diritto umano fondamentale a livello sub-nazionale, in sede di ordinamenti comunali e regionali.

Cos’è dunque la pace intesa come diritto umano?
La definizione è contenuta nell’articolo 28 della Dichiarazione universale del l948: la pace vi è intesa come un certo tipo di “ordine” sia interno ad un paese (ordine sociale) sia esterno (ordine internazionale).
In senso generale, per “ordine” deve intendersi l’insieme di quei principi, norme e istituzioni che sono deputati a orientare e informare i comportamenti interpersonali, sociali e politici all’interno di una determinata comunità o sistema. L’articolo 28 della Dichiarazione proclama implicitamente che tutte le comunità ai vari livelli, dal quartiere al mondo, debbano informarsi al medesimo tipo di ordine.
La pace dell’articolo 28 è la pace con, nella e per la giustizia, e la giustizia è quella che si definisce e si consegue attraverso il rispetto degli eguali diritti innati delle persone, ovunque nel mondo e in qualsiasi occasione: dunque, opus justitiae pax (la pace, opera della giustizia).
La pace è un “valore”, un “desiderabile” che, in via astratta, si propone come universalmente condivisibile. Ma perché il valore abbia un significato concreto, occorre insistere più sul verbo che sul sostantivo. Pace è pacificare, facere pacem, costruire l'”ordine” definito dall’articolo 28 della Dichiarazione universale, agire dal quartiere all’ONU in spirito di cooperazione tra persone, gruppi, tra popoli, tra governi.
Questa è l’accezione di “pace positiva”.
Nella cultura che tuttora domina negli ambienti istituzionali (e purtroppo anche nelle università e nella scuola), si continua a distinguere, anzi a separare la pace interna da quella internazionale, disconoscendo il nesso di continuità e interdipendenza tra le due. Per questa cultura, la pace internazionale è assunta essere una possibilità come la guerra e ambedue sono appannaggio dei governi e delle diplomazie, con questa palese contraddizione: che mentre i governi dichiarano la guerra “a tavolino” e le persone e i popoli la combattono e la patiscono “sul campo”, la pace è decisa e negoziata, sempre a tavolino, dai soli governi e ai popoli si impedisce, con mille ostacoli e intralci di tipo formale e sostanziale, di costruire la pace positiva sul campo. Insomma, per le persone e i popoli ci sarebbe un pesantissimo dovere di fare la guerra, ma non anche un fondamentale diritto di fare la pace. Come metterla con l’articolo l della Dichiarazione universale che proclama che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”? Il dovere di fare la guerra, cioè il dovere di uccidere ed essere uccisi, è la prima e più grossa ipoteca, anzi schiavitù, connessa alla cittadinanza anagrafica ovvero alla cittadinanza nazionale (già di per sè discriminante in quanto soltanto nazionale): insomma, la cittadinanza nazionale prima che “libera” è “armata”!
Sempre per la cultura dominante, la pace internazionale è la “pace negativa”, cioè l’assenza di guerre guerreggiate, l’intervallo – più o meno lungo – tra una guerra e l’altra.
Essendo la guerra assunta come legittima e sempre possibile, occorre prepararvisi anche se solo per difendersi e non anche per aggredire: si vis pacem para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra).
La formula della pace positiva è invece: si vis pacem para pacem (se vuoi la pace, prepara la pace).
Nell’ottica della pace positiva, la sicurezza è sempre collettiva e sopranazionale, ha una dimensione mondiale, ha contenuti economici e sociali ( per es., disciplina dei flussi migratori nel rispetto dei diritti umani e quindi dei principi di eguaglianza di tutte le persone e di tutti i popoli, giustizia sociale e solidarietà) oltre che di ordine pubblico o di polizia e si persegue attraverso le forme e gli strumenti della cooperazione multilaterale organizzata in via permanente. Per la parte militare, questo tipo di sicurezza si persegue con soggetti, equipaggiamenti e operazioni di “polizia internazionale”.

Qual è il contenuto dell’obbligo di pace positiva?
Gli stati, in quanto detentori del potere, anzi del monopolio, di usare la coercizione fisica anche mediante l’impiego delle armi sono anche la controparte principale del diritto alla pace. Giova sottolineare che questo monopolio è una delle ragioni di esistenza dello stato: appunto, ne cives ad arma venient (affinché i cittadini non vengano alle armi). Ora che questo monopolio è stato trasferito – quanto meno formalmente, in base alla Carta delle Nazioni Unite – in alto, in capo all’Organizzazione delle Nazioni Unite “ne populi ad arma venient” (affinché i popoli non vengano alle armi), lo stato diventa controparte sia rispetto alle persone e ai popoli sia rispetto all’ONU: è la controparte principale anche per il fatto che gli arsenali militari restano in suo possesso.
L’obbligo di pace positiva ricadente sugli stati consiste innanzitutto nel conformarsi ai principi della Carta delle Nazioni Unite: divieto dell’uso della forza per la risoluzione delle controversie internazionale e ricerca della vie di soluzione pacifica delle medesime (mediante negoziato, arbitrato, ricorso a giurisdizioni internazionali, ecc.).
La traduzione di questi principi da parte del singolo stato consiste principalmente nelle seguenti operazioni:
disarmare;
devolvere parte del proprio esercito all’ONU, secondo quanto disposto dall’articolo 43 della Carta delle Nazioni Unite;
far funzionare il Consiglio di sicurezza per i compiti assegnatigli;
democratizzare la politica internazionale e le istituzioni internazionali
porre sotto controllo di un’Alta Autorità delle Nazioni Unite non solo il commercio ma anche la produzione di armi (che deve essere limitata per l’uso a fini di polizia interna e internazionale);
riconoscere l’obiezione di coscienza e favorire la creazione di una forza nonarmata e nonviolenta sotto l’egida delle Nazioni Unite, formata da obiettori di coscienza e da volontari di ONG (Caschi bianchi delle Nazioni Unite);
rimuovere le cause strutturali della guerra, tra l’altro:
a) accettando in via preliminare l’idea della sicurezza collettiva, sopranazionale e multidimensionale, per la ‘difesa’ nazionale;
b) aiutando lo sviluppo umano sostenibile nei paesi ad economia povera;
c) rispettando rigorosamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (divieto della propaganda a favore della guerra);
d) promuovendo il dialogo interculturale;
e) lottando contro l’intolleranza, la xenofobia, la violenza e le sub-culture dell’autoritarismo;
f) vietando l’uso diseducativo della televisione;
g) apprestando adeguate forme di garanzia per l’esercizio non violento del diritto di autodeterminazione dei popoli, e quindi astenendosi dal bollarlo in via pregiudiziale come crimine di secessione e attentato alla integrità territoriale degli stati.